Segnaliamo ai lettori la sentenza emessa dalla terza sezione della Corte di Cassazione n. 30723 del 4.11.2020, avente ad oggetto il reato di cui all’art. 11 dec. lgs. 74/2000.
La vicenda trae origine da un decreto di sequestro preventivo di beni personali riconducibili al socio ed amministratore di una società di capitali, per un importo pari a circa € 149.000,00. Secondo l’ipotesi accusatoria quest’ultimo doveva ritenersi responsabile del reato di cui all’art. 11 dec. lgs. 74/2000, per avere simulatamente ceduto alla madre un proprio immobile personale al fine di sottrarsi al pagamento dell’IVA evasa negli anni dal 2010 al 2016 dalla società di capitali di cui era stato socio ed amministratore; e ciò al solo fine di rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva relativa al credito, di ammontare pari all’importo oggetto di sequestro, vantato dall’erario nei confronti della suindicata società.
Avverso il provvedimento ablativo veniva proposto riesame nell’interesse del proprietario dei beni sottoposti al vincolo cautelare, che tuttavia veniva rigettato.
L’interessato ricorreva pertanto contro la decisione del Tribunale del Riesame rilevando l’insussistenza dell’elemento oggettivo del delitto di cui all’art. 11 Dec. Lgs. 74/2000, in considerazione dell’assenza di una esposizione debitoria verso l’amministrazione fiscale che fosse riferibile alla persona del proprietario del bene oggetto dell’atto asseritamente fraudolento; nonché l’illegittimità del decreto di sequestro in quanto ricadente su un bene che non era di proprietà della società debitrice dell’erario.
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.
Preliminarmente la sentenza ha ribadito il principio di diritto per il quale “il bene oggetto degli atti simulati o fraudolenti, deve essere riconducibile al patrimonio del debitore verso l’erario, perché solo in questo caso il compimento dell’atto può rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. Con l’ulteriore conseguenza che il dolo specifico del reato non può che presupporre la sussistenza di una pretesa creditoria da parte dell’erario verso l’agente, alla quale questi intenda dolosamente sottrarsi attraverso l’atto negoziale fraudolento.
Alla luce di tale principio la Corte ha rilevato che il Tribunale non aveva esplicitato i presupposti giuridici e di fatto in forza dei quali il ricorrente doveva ritenersi responsabile del debito della società di capitali di cui era stato socio ed amministratore e, quindi, a quale titolo avrebbe potuto essere azionata nei suoi confronti una procedura di riscossione coattiva per il debito erariale della società: “accertamento indispensabile perché si sia in presenza di una vendita simulata di un bene del debitore che possa rendere in tutto o in parte la procedura di riscossione coattiva da parte dell’erario”.
Per tale motivazione la Corte ha annullato l’ordinanza con rinvio per un nuovo giudizio.
SOTTRAZIONE FRAUDOLENTA AL PAGAMENTO DI IMPOSTE: IL BENE OGGETTO DELL’ATTO SIMULATO DEVE ESSERE RICONDUCIBILE AL PATRIMONIO DEL DEBITORE VERSO L’ERARIO.
Segnaliamo ai lettori la sentenza emessa dalla terza sezione della Corte di Cassazione n. 30723 del 4.11.2020, avente ad oggetto il reato di cui all’art. 11 dec. lgs. 74/2000.
La vicenda trae origine da un decreto di sequestro preventivo di beni personali riconducibili al socio ed amministratore di una società di capitali, per un importo pari a circa € 149.000,00. Secondo l’ipotesi accusatoria quest’ultimo doveva ritenersi responsabile del reato di cui all’art. 11 dec. lgs. 74/2000, per avere simulatamente ceduto alla madre un proprio immobile personale al fine di sottrarsi al pagamento dell’IVA evasa negli anni dal 2010 al 2016 dalla società di capitali di cui era stato socio ed amministratore; e ciò al solo fine di rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva relativa al credito, di ammontare pari all’importo oggetto di sequestro, vantato dall’erario nei confronti della suindicata società.
Avverso il provvedimento ablativo veniva proposto riesame nell’interesse del proprietario dei beni sottoposti al vincolo cautelare, che tuttavia veniva rigettato.
L’interessato ricorreva pertanto contro la decisione del Tribunale del Riesame rilevando l’insussistenza dell’elemento oggettivo del delitto di cui all’art. 11 Dec. Lgs. 74/2000, in considerazione dell’assenza di una esposizione debitoria verso l’amministrazione fiscale che fosse riferibile alla persona del proprietario del bene oggetto dell’atto asseritamente fraudolento; nonché l’illegittimità del decreto di sequestro in quanto ricadente su un bene che non era di proprietà della società debitrice dell’erario.
Con la sentenza in commento la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso.
Preliminarmente la sentenza ha ribadito il principio di diritto per il quale “il bene oggetto degli atti simulati o fraudolenti, deve essere riconducibile al patrimonio del debitore verso l’erario, perché solo in questo caso il compimento dell’atto può rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva”. Con l’ulteriore conseguenza che il dolo specifico del reato non può che presupporre la sussistenza di una pretesa creditoria da parte dell’erario verso l’agente, alla quale questi intenda dolosamente sottrarsi attraverso l’atto negoziale fraudolento.
Alla luce di tale principio la Corte ha rilevato che il Tribunale non aveva esplicitato i presupposti giuridici e di fatto in forza dei quali il ricorrente doveva ritenersi responsabile del debito della società di capitali di cui era stato socio ed amministratore e, quindi, a quale titolo avrebbe potuto essere azionata nei suoi confronti una procedura di riscossione coattiva per il debito erariale della società: “accertamento indispensabile perché si sia in presenza di una vendita simulata di un bene del debitore che possa rendere in tutto o in parte la procedura di riscossione coattiva da parte dell’erario”.
Per tale motivazione la Corte ha annullato l’ordinanza con rinvio per un nuovo giudizio.