SEQUESTRO FINALIZZATO ALLA CONFISCA DIRETTA E DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO

Con la n. 36746 del 2020, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’(in)applicabilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca diretta sui beni già assoggettati alla procedura fallimentare.

In senso contrario si era espressa sul punto la giurisprudenza con la sentenza n. 15776 del gennaio 2020, affermando che, in materia di reati tributari, il sequestro e la confisca del profitto del reato sono destinati a prevalere su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, anche se assoggettato alla procedura fallimentare ed a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento, non potendosi attribuire alla procedura concorsuale – anche se intervenuta prima del sequestro – effetto preclusivo rispetto all’operatività della cautela reale disposta nell’ambito del processo penale.

In quella sede, precisava tuttavia la Corte che l’unico limite all’operatività della misura cautelare era rappresentato dall’appartenenza del bene a persona estranea dal reato e, pertanto, che sarà onere del giudice di merito escludere dalla sottoposizione a vincolo ablativo quei beni da restituire al danneggiato e quelli sui quali terzi abbiano acquisito diritti in buona fede.

Tale interpretazione estremamente rigorosa veniva immediatamente superata dalla giurisprudenza successiva, prima con la sentenza n. 14766 del febbraio 2020 e definitivamente con la sentenza in commento, che ripercorrendo quanto già affermato dal alcune precedenti pronunce in materia (si vedano Cassazione penale sez. III – 29/05/2018, n. 45574 e Cassazione penale sez. III – 04/10/2019, n. 51462 ) ed implicitamente dalle Sezioni Unite (n. 45936 del 26 settembre 2019), ribadisce invece il principio giurisprudenziale per cui, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, il sequestro preventivo dei beni della società finalizzato alla confisca diretta del profitto non può più essere eseguito, mentre può essere eseguito solo quello finalizzato alla confisca per equivalente, sui beni dell’indagato.

Le ragioni sottese alla scelta di procedere nelle forme della confisca per equivalente nei confronti della persona fisica, seppur non esplicitate nel dettaglio dalla pronuncia in commento, si basano sull’antecedenza cronologica della dichiarazione di fallimento della società rispetto al decreto di sequestro.

La privazione della disponibilità dei beni disposta dall’art. 42 L. Fall., importa infatti il venir meno, in capo al fallito, del potere di disporre e di amministrare il proprio patrimonio che passa, per effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, in capo al curatore.

La dichiarazione di fallimento determina dunque la circostanza per cui i beni della società, teoricamente aggredibili, siano già stati appresi dalla curatela fallimentare e soggiacciano al principio della par condicio creditorum, non scalfibile neppure da un vincolo ablativo imposto dalla autorità giudiziaria in assenza di una legittima causa di prelazione.

Diversamente ragionando, il vincolo imposto dal sequestro determinerebbe il depauperamento della massa patrimoniale a danno del ceto dei creditori.

Conclude pertanto, ancora una volta, la Suprema Corte affermando che la peculiare natura dell’attivo fallimentare derivante da tale spossessamento rappresenta un ostacolo all’applicabilità del disposto di cui all’art. 12-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, che individua, quale limite all’operatività della confisca, l’appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato a terzi estranei al reato.

Si tratta di un iter argomentativo che, seppur pregiudizievole per la posizione dell’imputato, risulta condivisibile laddove si pone in un’ottica di massima tutela del principio della par condicio creditorum.

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