Con la sentenza n. 16686 del 16 aprile 2021, depositata il 3 maggio 2021, la terza sezione penale della Corte di Cassazione, ha annullato la decisione con cui il Tribunale di Venezia aveva invalidato la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei confronti di un’imprenditrice occulta, indagata per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 D.lgs. 74/2000.
Più in particolare, l’imprenditrice indagata avrebbe messo in atto un meccanismo che lo stesso Tribunale del Riesame qualifica «fraudolento nel suo complesso», e cioè la creazione “a tempo” di cinque società evidentemente fittizie e tutte riconducibili all’indagata, volte ad accumulare indebitamento fiscale entro i tre anni e a partire da tale limite temporale – prima dell’inizio della possibile riscossione coattiva – il sistematico svuotamento di tutti i conti e i depositi della società, la cessazione di ogni attività e la sparizione della società che veniva prontamente sostituita da un’altra che replicava il meccanismo. Tuttavia, a parere del Tribunale cautelare, il descritto sistema non integrerebbe il fumus del reato di cui all’art. 11 D.lgs. 74/2000, in quanto ciascun atto di disposizione patrimoniale, singolarmente considerato, è di per sé non illecito essendo attuato attraverso singoli trasferimenti bancari, tracciabili e ricostruibili.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo, pertanto, proponeva ricorso per Cassazione censurando la pronuncia in esame per errata interpretazione della locuzione «atti fraudolenti» e, in relazione ad alcune contestazioni, per il ritenuto mancato superamento delle soglie di punibilità che con riferimento al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, a parere del ricorrente, non deve essere calcolato per singole annualità.
I giudici della terza sezione penale della Corte di Cassazione, prima di sviluppare l’ordito motivazionale della sentenza, effettuano un breve inquadramento della fattispecie contestata all’indagata che punisce, nell’ipotesi di cui al comma 1, «chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni».
Il collegio rammenta che la fattispecie delittuosa di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è stata completamente riformulata rispetto al precedente modello del 1973[1] e anche a quello successivo del 1991[2]: trattasi di un reato di pericolo e più precisamene di pericolo concreto, per la cui integrazione è sufficiente, in base ad un giudizio ex ante, che la condotta sia idonea a rendere inefficace la procedura di riscossione, ma non esige che essa sia effettivamente frustata e neppure che sia stata attivata dall’amministrazione finanziaria. Insomma il legislatore ha avanzato la linea di protezione penale richiedendo, ai fini della consumazione, la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione. Il fine ultimo perseguito dal legislatore, cioè la protezione dell’interesse alla percezione dei tributi da parte dell’Erario, rimane proiettato sullo sfondo della tutela che ruota sulla conservazione della garanzia patrimoniale del contribuente e rende irrilevante l’eventuale successivo pagamento dell’imposta[3].
La condotta incriminata consiste nell’alienare simulatamente o nel compiere altri atti fraudolenti diretti a eludere l’adempimento di obbligazioni tributarie o di sanzioni o di interessi che scaturiscono dall’inosservanza di norme tributarie, in modo da rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Sulla base di queste premesse, la motivazione della sentenza in commento, come anticipato, ruota intorno alla nozione di «altri atti fraudolenti» – modalità di condotta residuale che comprende tutti gli atti diversi dalla simultanea alienazione – che nel solco tracciato dalla giurisprudenza della stessa Terza Sezione può essere integrata da « qualsiasi atto, connotato da una componente di artificio, inganno o menzogna, che sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio – o comunque rendendo più difficoltosa – l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario»[4]. Ciò non vuol dire che ogni atto idoneo alla mera riduzione della garanzia del credito sia un atto fraudolento, perché una simile equazione sarebbe in contrasto con il principio di legalità. Tanto è vero che per meglio delineare i contorni della fattispecie tipica – richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 12213 del 21/12/2017, Rv. 272171) con riferimento all’ipotesi delittuosa per certi versi analoga di cui all’art. 388 c.p., “Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice” – il collegio precisa che è indispensabile «che l’atto si qualifichi per un quid pluris rispetto alla idoneità a rendere inefficaci gli obblighi nascenti dal provvedimento giudiziario, tanto più in quanto solo così potrebbe giungersi, in un’ottica improntata al principio di offensività, a differenziare una condotta solo civilmente illecita (e passibile, nel concorso degli ulteriori requisiti, di azione revocatoria) da una condotta connotata da disvalore penalmente rilevante».
Proprio sotto questo angolo visuale si palesa, a parere dei giudici della terza sezione penale, il vizio intrinseco e l’evidente contraddittorietà della motivazione resa dal Tribunale cautelare che ha travisato la nozione di atto fraudolento, limitandola e restringendola tanto da farla coincidere con quella di atto illecito, peraltro, ponendo l’accento sulla singola condotta (ossia lo svuotamento dei conti correnti sociali mediante bonifici tracciabili) e non, invece, sul complesso di atti funzionalmente collegati e tali da integrare, appunto, un meccanismo sistematico.
Con la sentenza in commento, peraltro, viene accolto anche il secondo motivo di ricorso e, dunque, si censura la decisione del Tribunale di Venezia anche nella parte in cui riteneva che la soglia di punibilità prevista per il delitto in esame non fosse stata superata, perché riferita alla singola annualità d’imposta. Anche su questo punto, il collegio della terza sezione penale della Corte di Cassazione, facendo riferimento alla natura di reato di pericolo concreto dell’incriminazione contestata all’indagata e alla sua ratio, ha sottolineato come, a differenza di altri reati del D.lgs. 74/2000, la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte non prevede expressis verbis che la soglia di rilevanza sia raggiunta per singole annualità.
Alla luce di quanto sin qui detto, si capisce che il concetto di “atti fraudolenti” costituisce un autentico punctum dolens della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 11 D.lgs. 74/2000, in ragione dell’estrema indeterminatezza del sintagma normativo, tale da poter ricomprendere in astratto ogni tipologia di atto che comporti un indebolimento delle garanzie patrimoniali del contribuente rendendo, così, indefiniti e labili i confini della fattispecie. Considerazione, questa, che desta preoccupazione tenendo conto che l’art. 11 del D.lgs. n. 74/2000 è un reato di pericolo concreto non essendo più richiesto, ai fini dell’integrazione del reato, né che siano in corso accessi, ispezioni, verifiche o che sia stata effettivamente avviata una procedura di riscossione, né assume più alcuna rilevanza ai fini dell’esclusione della responsabilità penale che la pretesa tributaria sia stata successivamente soddisfatta. Questa significativa anticipazione del penalmente rilevante risulta ancora più delicata perché riguarda l’incriminazione di condotte altrimenti lecite, che anzi sono espressione di diritti costituzionalmente tutelati, vale a dire l’esercizio del diritto di proprietà e, in particolare, la facoltà del singolo di decidere della destinazione dei propri beni. È necessario allora trovare un giusto bilanciamento tra il diritto fondamentale dei cittadini/contribuenti di disporre liberamente dei propri beni e la tutela dell’interesse dello Stato, rappresentato dalla possibilità di ricorrere utilmente all’esercizio della funzione esecutiva.
In conclusione, a fronte di una formulazione letterale dell’art. 11 D.lgs. 74/2000 tale da ingenerare fondati dubbi circa la compatibilità della fattispecie incriminatrice con il principio di determinatezza, la pronuncia in commento è certamente da apprezzare, nel senso che, quantomeno, riconosce che la mera idoneità degli atti a mettere in discussione la possibilità di recupero del credito da parte dell’Erario non può essere da sola sufficiente per riconoscerne la natura ingannatoria o artificiosa. Come ribadito dalla Cassazione con la sentenza in parola, infatti, gli “atti fraudolenti” devono essere caratterizzati da un quid pluris oltre alla mera idoneità a limitare la garanzia del credito, proprio in un’ottica costituzionalmente orientata e improntata ai principi di tipicità e offensività della fattispecie penale, soprattutto nell’ambito della libertà di disposizione dei propri beni.
[1] Art. 97, comma 6, D.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, alla stregua del quale «il contribuente incorso in morosità, che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte dovute, abbia compiuto sui propri o sugli altrui beni atti fraudolenti che rendono in tutto o in parte inefficace l’esecuzione esattoriale è punito con la reclusione sino a tre anni».
[2] A seguito della modifica operata nel 1991, l’art. 97, comma 6, d.p.r. 602/1973 è stato così riformulato: «Il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti, ha compiuto, dopo che sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche, o sono stati notificati gli inviti e le richieste previste dalle singole leggi di imposta ovvero sono stati notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che hanno reso in tutto o in parte inefficace la relativa cartella esattoriale, è punito con la reclusione sino a tre anni. La disposizione non si applica se l’ammontare delle somme non corrisposte non è superiore a lire 10 milioni».
[3] Cfr. Musco-Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, ss.
[4] Cass. pen., Sez. III, n. 29636 del 02/03/2018, dep.02/07/2018, Auci, Rv. 273493; Cass. pen., Sez. III, n. 25677 del 16/05/2012, Rv. 252996.
SOTTRAZIONE FRAUDOLENTA AL PAGAMENTO DI IMPOSTE: ANCHE LE OPERAZIONI BANCARIE TRACCIABILI SONO IDONEE AD INTEGRARE IL REATO
Con la sentenza n. 16686 del 16 aprile 2021, depositata il 3 maggio 2021, la terza sezione penale della Corte di Cassazione, ha annullato la decisione con cui il Tribunale di Venezia aveva invalidato la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei confronti di un’imprenditrice occulta, indagata per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, di cui all’art. 11 D.lgs. 74/2000.
Più in particolare, l’imprenditrice indagata avrebbe messo in atto un meccanismo che lo stesso Tribunale del Riesame qualifica «fraudolento nel suo complesso», e cioè la creazione “a tempo” di cinque società evidentemente fittizie e tutte riconducibili all’indagata, volte ad accumulare indebitamento fiscale entro i tre anni e a partire da tale limite temporale – prima dell’inizio della possibile riscossione coattiva – il sistematico svuotamento di tutti i conti e i depositi della società, la cessazione di ogni attività e la sparizione della società che veniva prontamente sostituita da un’altra che replicava il meccanismo. Tuttavia, a parere del Tribunale cautelare, il descritto sistema non integrerebbe il fumus del reato di cui all’art. 11 D.lgs. 74/2000, in quanto ciascun atto di disposizione patrimoniale, singolarmente considerato, è di per sé non illecito essendo attuato attraverso singoli trasferimenti bancari, tracciabili e ricostruibili.
Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovigo, pertanto, proponeva ricorso per Cassazione censurando la pronuncia in esame per errata interpretazione della locuzione «atti fraudolenti» e, in relazione ad alcune contestazioni, per il ritenuto mancato superamento delle soglie di punibilità che con riferimento al reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, a parere del ricorrente, non deve essere calcolato per singole annualità.
I giudici della terza sezione penale della Corte di Cassazione, prima di sviluppare l’ordito motivazionale della sentenza, effettuano un breve inquadramento della fattispecie contestata all’indagata che punisce, nell’ipotesi di cui al comma 1, «chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni».
Il collegio rammenta che la fattispecie delittuosa di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte è stata completamente riformulata rispetto al precedente modello del 1973[1] e anche a quello successivo del 1991[2]: trattasi di un reato di pericolo e più precisamene di pericolo concreto, per la cui integrazione è sufficiente, in base ad un giudizio ex ante, che la condotta sia idonea a rendere inefficace la procedura di riscossione, ma non esige che essa sia effettivamente frustata e neppure che sia stata attivata dall’amministrazione finanziaria. Insomma il legislatore ha avanzato la linea di protezione penale richiedendo, ai fini della consumazione, la semplice idoneità della condotta a rendere inefficace la procedura di riscossione. Il fine ultimo perseguito dal legislatore, cioè la protezione dell’interesse alla percezione dei tributi da parte dell’Erario, rimane proiettato sullo sfondo della tutela che ruota sulla conservazione della garanzia patrimoniale del contribuente e rende irrilevante l’eventuale successivo pagamento dell’imposta[3].
La condotta incriminata consiste nell’alienare simulatamente o nel compiere altri atti fraudolenti diretti a eludere l’adempimento di obbligazioni tributarie o di sanzioni o di interessi che scaturiscono dall’inosservanza di norme tributarie, in modo da rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva.
Sulla base di queste premesse, la motivazione della sentenza in commento, come anticipato, ruota intorno alla nozione di «altri atti fraudolenti» – modalità di condotta residuale che comprende tutti gli atti diversi dalla simultanea alienazione – che nel solco tracciato dalla giurisprudenza della stessa Terza Sezione può essere integrata da « qualsiasi atto, connotato da una componente di artificio, inganno o menzogna, che sia idoneo a rappresentare ai terzi una realtà (la riduzione del patrimonio del debitore) non corrispondente al vero, mettendo a repentaglio – o comunque rendendo più difficoltosa – l’azione di recupero del bene in tal modo sottratto alle ragioni dell’Erario»[4]. Ciò non vuol dire che ogni atto idoneo alla mera riduzione della garanzia del credito sia un atto fraudolento, perché una simile equazione sarebbe in contrasto con il principio di legalità. Tanto è vero che per meglio delineare i contorni della fattispecie tipica – richiamando la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza n. 12213 del 21/12/2017, Rv. 272171) con riferimento all’ipotesi delittuosa per certi versi analoga di cui all’art. 388 c.p., “Mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice” – il collegio precisa che è indispensabile «che l’atto si qualifichi per un quid pluris rispetto alla idoneità a rendere inefficaci gli obblighi nascenti dal provvedimento giudiziario, tanto più in quanto solo così potrebbe giungersi, in un’ottica improntata al principio di offensività, a differenziare una condotta solo civilmente illecita (e passibile, nel concorso degli ulteriori requisiti, di azione revocatoria) da una condotta connotata da disvalore penalmente rilevante».
Proprio sotto questo angolo visuale si palesa, a parere dei giudici della terza sezione penale, il vizio intrinseco e l’evidente contraddittorietà della motivazione resa dal Tribunale cautelare che ha travisato la nozione di atto fraudolento, limitandola e restringendola tanto da farla coincidere con quella di atto illecito, peraltro, ponendo l’accento sulla singola condotta (ossia lo svuotamento dei conti correnti sociali mediante bonifici tracciabili) e non, invece, sul complesso di atti funzionalmente collegati e tali da integrare, appunto, un meccanismo sistematico.
Con la sentenza in commento, peraltro, viene accolto anche il secondo motivo di ricorso e, dunque, si censura la decisione del Tribunale di Venezia anche nella parte in cui riteneva che la soglia di punibilità prevista per il delitto in esame non fosse stata superata, perché riferita alla singola annualità d’imposta. Anche su questo punto, il collegio della terza sezione penale della Corte di Cassazione, facendo riferimento alla natura di reato di pericolo concreto dell’incriminazione contestata all’indagata e alla sua ratio, ha sottolineato come, a differenza di altri reati del D.lgs. 74/2000, la fattispecie di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte non prevede expressis verbis che la soglia di rilevanza sia raggiunta per singole annualità.
Alla luce di quanto sin qui detto, si capisce che il concetto di “atti fraudolenti” costituisce un autentico punctum dolens della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 11 D.lgs. 74/2000, in ragione dell’estrema indeterminatezza del sintagma normativo, tale da poter ricomprendere in astratto ogni tipologia di atto che comporti un indebolimento delle garanzie patrimoniali del contribuente rendendo, così, indefiniti e labili i confini della fattispecie. Considerazione, questa, che desta preoccupazione tenendo conto che l’art. 11 del D.lgs. n. 74/2000 è un reato di pericolo concreto non essendo più richiesto, ai fini dell’integrazione del reato, né che siano in corso accessi, ispezioni, verifiche o che sia stata effettivamente avviata una procedura di riscossione, né assume più alcuna rilevanza ai fini dell’esclusione della responsabilità penale che la pretesa tributaria sia stata successivamente soddisfatta. Questa significativa anticipazione del penalmente rilevante risulta ancora più delicata perché riguarda l’incriminazione di condotte altrimenti lecite, che anzi sono espressione di diritti costituzionalmente tutelati, vale a dire l’esercizio del diritto di proprietà e, in particolare, la facoltà del singolo di decidere della destinazione dei propri beni. È necessario allora trovare un giusto bilanciamento tra il diritto fondamentale dei cittadini/contribuenti di disporre liberamente dei propri beni e la tutela dell’interesse dello Stato, rappresentato dalla possibilità di ricorrere utilmente all’esercizio della funzione esecutiva.
In conclusione, a fronte di una formulazione letterale dell’art. 11 D.lgs. 74/2000 tale da ingenerare fondati dubbi circa la compatibilità della fattispecie incriminatrice con il principio di determinatezza, la pronuncia in commento è certamente da apprezzare, nel senso che, quantomeno, riconosce che la mera idoneità degli atti a mettere in discussione la possibilità di recupero del credito da parte dell’Erario non può essere da sola sufficiente per riconoscerne la natura ingannatoria o artificiosa. Come ribadito dalla Cassazione con la sentenza in parola, infatti, gli “atti fraudolenti” devono essere caratterizzati da un quid pluris oltre alla mera idoneità a limitare la garanzia del credito, proprio in un’ottica costituzionalmente orientata e improntata ai principi di tipicità e offensività della fattispecie penale, soprattutto nell’ambito della libertà di disposizione dei propri beni.
[1] Art. 97, comma 6, D.p.r. 29 settembre 1973, n. 602, alla stregua del quale «il contribuente incorso in morosità, che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte dovute, abbia compiuto sui propri o sugli altrui beni atti fraudolenti che rendono in tutto o in parte inefficace l’esecuzione esattoriale è punito con la reclusione sino a tre anni».
[2] A seguito della modifica operata nel 1991, l’art. 97, comma 6, d.p.r. 602/1973 è stato così riformulato: «Il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti, ha compiuto, dopo che sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche, o sono stati notificati gli inviti e le richieste previste dalle singole leggi di imposta ovvero sono stati notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che hanno reso in tutto o in parte inefficace la relativa cartella esattoriale, è punito con la reclusione sino a tre anni. La disposizione non si applica se l’ammontare delle somme non corrisposte non è superiore a lire 10 milioni».
[3] Cfr. Musco-Ardito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, ss.
[4] Cass. pen., Sez. III, n. 29636 del 02/03/2018, dep.02/07/2018, Auci, Rv. 273493; Cass. pen., Sez. III, n. 25677 del 16/05/2012, Rv. 252996.