Con la sentenza n. 26349 del 2021, la Corte di Cassazione, Sezione IV penale, è tornata a pronunciarsi sul rapporto intercorrente tra la procedura di concordato preventivo e l’obbligo di versamento delle ritenute, precisando quali siano le condizioni affinché la domanda di ammissione alla procedura di concordato possa valere quale scriminante ex art. 51 c.p.
La vicenda in esame è quella di un imprenditore di Lecco indagato del reato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo n. 74/2000, in quanto, dopo aver depositato, nell’agosto 2018, il ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo con riserva, aveva omesso di versare, entro il termine ultimo previsto dalla Legge, le ritenute certificate dell’anno precedente aventi scadenza nell’ottobre 2018.
Il Tribunale di Lecco, in funzione del giudice del riesame, con ordinanza del novembre 2019, respingeva l’appello della Procura avverso il provvedimento con cui il GIP aveva rigettato la richiesta di sequestro per equivalente avanzata nei confronti dell’indagato. A seguito di ricorso da parte del Pubblico Ministero, la Suprema Corte, III sezione penale, con sentenza n. 13628 del 20 febbraio 2020 (già oggetto di attenta analisi da parte dell’Osservatorio) annullava l’ordinanza di rigetto con rinvio al Tribunale del Riesame, che, uniformandosi al principio di diritto enucleato dalla pronuncia rescindente, accoglieva l’appello della Procura avverso il decreto del GIP ed ordinava il sequestro per equivalente di beni e crediti nella disponibilità dell’indagato.
L’indagato proponeva nuovamente ricorso per Cassazione deducendo, in estrema sintesi, che, nel caso di specie, l’omissione sarebbe stata scriminata dall’adempimento di un dovere ai sensi dell’art. 51 c.p. e che, in ogni caso, la società non disponeva di liquidità necessaria per onorare il debito tributario.
La Cassazione rigettava il ricorso ribadendo i principi già espressi con la summenzionata pronuncia n. 13628 del 20 febbraio 2020 e fornendo inoltre alcune precisazioni in ordine al requisito della non imputabilità dello stato di crisi in capo all’imprenditore indagato che invochi l’assoluta impossibilità di adempiere il debito d’imposta quale causa di esclusione della responsabilità penale.
In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto infondate le deduzioni della difesa secondo cui la domanda di ammissione alla procedura di concordato esenterebbe l’imprenditore da debiti con scadenza successiva. I Giudici di legittimità precisavano come il Tribunale del Riesame avesse fatto buon governo del principio di diritto enucleato dalla sentenza rescindente secondo cui la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo (con riserva o ordinario) non inibisce il pagamento dei debiti tributari con scadenza successiva al deposito della domanda, ma antecedente all’ammissione, salvo la presenza di un provvedimento del tribunale che ne abbia vietato il pagamento.
In buona sostanza, seppure il pagamento delle imposte rientri, per la giurisprudenza civile, tra gli atti di straordinaria amministrazione e cioè quegli atti che, ai sensi del VII comma dell’art. 161 L.F., per essere compiuti dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di ammissione alla procedura concordataria, necessitano di autorizzazione del Tribunale, ciò non esenta il debitore dal pagamento di quanto dovuto all’Erario.
Infatti, il debitore avrà l’onere di attivarsi chiedendo al Tribunale l’autorizzazione al pagamento delle imposte e solo in caso di emissione di un provvedimento di diniego, potrà invocare, in sede penale, l’esimente dell’adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p.
Se così non fosse, ad avviso della Suprema Corte, si rischierebbe di dare adito ad usi distorti e strumentali della procedura; infatti, per l’imprenditore insolvente sarebbe sufficiente depositare la domanda di concordato prima della scadenza del termine per il versamento delle imposte onde evitare di incorrere in responsabilità penale.
Peraltro, la Corte specifica come, a maggior ragione, la mera domanda di ammissione alla procedura di concordato non può, di per sé, valere come scriminante, qualora sia stata presentata dallo stesso soggetto a cui è attribuibile il dissesto della società.
Sul punto, la Corte, entrando nel merito della seconda argomentazione addotta dal ricorrente, coglie l’occasione per ribadire quali siano le condizioni affinché lo stato di crisi possa configurare un’esimente; nello specifico, l’imputato dovrà assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito la società, sia l’impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee a valutarsi in concreto.
Ancora una volta, la Suprema Corte si pone in maniera estremamente rigida con riferimento al rapporto intercorrente tra procedura concordataria ed omesso pagamento delle imposte, presumibilmente, al fine di evitare che la procedura sia utilizzata quale strumento per addurre l’esclusione della responsabilità da parte dell’imprenditore in crisi che, avendo un debito tributario a scadenza certa e per importi volti ad integrare ipotesi di reato, sia intenzionato a non onorare il debito entro il termine di legge.
Anche i principi espressi circa l’esimente della forza maggiore sono frutto di un consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di omesso versamento delle imposte e stato di crisi. Appare certamente condivisibile che l’esimente della crisi di liquidità non possa essere addotta dall’imprenditore che ha determinato il dissesto della società insolvente. In ogni caso, si riscontra come, ad oggi, la giurisprudenza più recente pronunciatasi in materia, per una ragione o per l’altra, non riconosca pressoché mai l’esimente dello stato di crisi, ritenendo la soddisfazione del credito verso l’Erario imprescindibile anche qualora questo comporti l’impossibilità di versare integralmente le retribuzioni ai dipendenti o rischi di pregiudicare sensibilmente la prosecuzione dell’attività d’impresa. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale la cui sorprendente rigidità contrasta diametralmente sia con qualsiasi logica imprenditoriale sia con il periodo storico in cui sta trovando il suo consolidamento.
Omesso versamento di ritenute certificate: la Cass. ribadisce i presupposti per l’applicazione della scriminante di cui all’art. 51 c.p. in caso di presentazione della domanda di concordato preventivo.
Con la sentenza n. 26349 del 2021, la Corte di Cassazione, Sezione IV penale, è tornata a pronunciarsi sul rapporto intercorrente tra la procedura di concordato preventivo e l’obbligo di versamento delle ritenute, precisando quali siano le condizioni affinché la domanda di ammissione alla procedura di concordato possa valere quale scriminante ex art. 51 c.p.
La vicenda in esame è quella di un imprenditore di Lecco indagato del reato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo n. 74/2000, in quanto, dopo aver depositato, nell’agosto 2018, il ricorso per l’ammissione alla procedura di concordato preventivo con riserva, aveva omesso di versare, entro il termine ultimo previsto dalla Legge, le ritenute certificate dell’anno precedente aventi scadenza nell’ottobre 2018.
Il Tribunale di Lecco, in funzione del giudice del riesame, con ordinanza del novembre 2019, respingeva l’appello della Procura avverso il provvedimento con cui il GIP aveva rigettato la richiesta di sequestro per equivalente avanzata nei confronti dell’indagato. A seguito di ricorso da parte del Pubblico Ministero, la Suprema Corte, III sezione penale, con sentenza n. 13628 del 20 febbraio 2020 (già oggetto di attenta analisi da parte dell’Osservatorio) annullava l’ordinanza di rigetto con rinvio al Tribunale del Riesame, che, uniformandosi al principio di diritto enucleato dalla pronuncia rescindente, accoglieva l’appello della Procura avverso il decreto del GIP ed ordinava il sequestro per equivalente di beni e crediti nella disponibilità dell’indagato.
L’indagato proponeva nuovamente ricorso per Cassazione deducendo, in estrema sintesi, che, nel caso di specie, l’omissione sarebbe stata scriminata dall’adempimento di un dovere ai sensi dell’art. 51 c.p. e che, in ogni caso, la società non disponeva di liquidità necessaria per onorare il debito tributario.
La Cassazione rigettava il ricorso ribadendo i principi già espressi con la summenzionata pronuncia n. 13628 del 20 febbraio 2020 e fornendo inoltre alcune precisazioni in ordine al requisito della non imputabilità dello stato di crisi in capo all’imprenditore indagato che invochi l’assoluta impossibilità di adempiere il debito d’imposta quale causa di esclusione della responsabilità penale.
In primo luogo, la Suprema Corte ha ritenuto infondate le deduzioni della difesa secondo cui la domanda di ammissione alla procedura di concordato esenterebbe l’imprenditore da debiti con scadenza successiva. I Giudici di legittimità precisavano come il Tribunale del Riesame avesse fatto buon governo del principio di diritto enucleato dalla sentenza rescindente secondo cui la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo (con riserva o ordinario) non inibisce il pagamento dei debiti tributari con scadenza successiva al deposito della domanda, ma antecedente all’ammissione, salvo la presenza di un provvedimento del tribunale che ne abbia vietato il pagamento.
In buona sostanza, seppure il pagamento delle imposte rientri, per la giurisprudenza civile, tra gli atti di straordinaria amministrazione e cioè quegli atti che, ai sensi del VII comma dell’art. 161 L.F., per essere compiuti dopo il deposito del ricorso e fino al decreto di ammissione alla procedura concordataria, necessitano di autorizzazione del Tribunale, ciò non esenta il debitore dal pagamento di quanto dovuto all’Erario.
Infatti, il debitore avrà l’onere di attivarsi chiedendo al Tribunale l’autorizzazione al pagamento delle imposte e solo in caso di emissione di un provvedimento di diniego, potrà invocare, in sede penale, l’esimente dell’adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p.
Se così non fosse, ad avviso della Suprema Corte, si rischierebbe di dare adito ad usi distorti e strumentali della procedura; infatti, per l’imprenditore insolvente sarebbe sufficiente depositare la domanda di concordato prima della scadenza del termine per il versamento delle imposte onde evitare di incorrere in responsabilità penale.
Peraltro, la Corte specifica come, a maggior ragione, la mera domanda di ammissione alla procedura di concordato non può, di per sé, valere come scriminante, qualora sia stata presentata dallo stesso soggetto a cui è attribuibile il dissesto della società.
Sul punto, la Corte, entrando nel merito della seconda argomentazione addotta dal ricorrente, coglie l’occasione per ribadire quali siano le condizioni affinché lo stato di crisi possa configurare un’esimente; nello specifico, l’imputato dovrà assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito la società, sia l’impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee a valutarsi in concreto.
Ancora una volta, la Suprema Corte si pone in maniera estremamente rigida con riferimento al rapporto intercorrente tra procedura concordataria ed omesso pagamento delle imposte, presumibilmente, al fine di evitare che la procedura sia utilizzata quale strumento per addurre l’esclusione della responsabilità da parte dell’imprenditore in crisi che, avendo un debito tributario a scadenza certa e per importi volti ad integrare ipotesi di reato, sia intenzionato a non onorare il debito entro il termine di legge.
Anche i principi espressi circa l’esimente della forza maggiore sono frutto di un consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di omesso versamento delle imposte e stato di crisi. Appare certamente condivisibile che l’esimente della crisi di liquidità non possa essere addotta dall’imprenditore che ha determinato il dissesto della società insolvente. In ogni caso, si riscontra come, ad oggi, la giurisprudenza più recente pronunciatasi in materia, per una ragione o per l’altra, non riconosca pressoché mai l’esimente dello stato di crisi, ritenendo la soddisfazione del credito verso l’Erario imprescindibile anche qualora questo comporti l’impossibilità di versare integralmente le retribuzioni ai dipendenti o rischi di pregiudicare sensibilmente la prosecuzione dell’attività d’impresa. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale la cui sorprendente rigidità contrasta diametralmente sia con qualsiasi logica imprenditoriale sia con il periodo storico in cui sta trovando il suo consolidamento.