La Corte di Cassazione, sezione IV, con la sentenza del 13 gennaio 2022 n. 864 si pronuncia nuovamente riguardo all’incidenza della dichiarazione di fallimento sull’applicabilità della confisca obbligatoria prevista dall’art. 12bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Nel caso specifico, all’esito del primo grado di giudizio, il Tribunale di Trapani, pur avendo applicato la sentenza ex art. 444 c.p.p. nei confronti dell’imputato del reato di dichiarazione infedele, rigettava la richiesta di confisca dei beni nella disponibilità del medesimo per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato, in quanto era ormai intervenuta la dichiarazione di fallimento e la norma stessa individua quale limite all’operatività della misura ablatoria l’appartenenza del profitto o del prezzo del reato a soggetti terzi che ne sono estranei.
Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo presentava ricorso cassazione deducendo come, nel caso di specie, il Giudice di primo grado avesse rigettato la richiesta di confisca esclusivamente in ragione dell’intervenuta dichiarazione di fallimento, omettendo di accertare altri aspetti essenziali quali: la consistenza dell’attivo fallimentare, l’eventuale preventivo soddisfacimento del credito erariale rispetto all’importo suscettibile di confisca, se ed in che termini fossero state avanzate al Curatore pretese creditorie da parte di soggetti in buona fede.
La Suprema Corte investita della questione è stata dunque chiamata a valutare se la peculiare natura dell’attivo fallimentare derivante dallo spossessamento dei beni del fallito sia o meno di ostacolo all’applicabilità del disposto di cui all’art. 12bis del d.lgs. n. 74/2000, che individua quale limite all’operatività della confisca l’appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato ai terzi che ne sono estranei.
Sull’argomento si registrano effettivamente due orientamenti giurisprudenziali di legittimità contrastanti.
Secondo il primo orientamento giurisprudenziale recepito con la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III penale, n. 14766 del 26 febbraio 2020 e fatto proprio dal Giudice di prime cure, l’intervenuto fallimento determinerebbe l’inapplicabilità della misura ablatoria sui beni del fallito, in quanto, ai sensi dell’art. 42 L.F., la dichiarazione di fallimento ne comporta lo spossessamento e l’affidamento alla Curatela affinché li gestisca e ne eviti il depauperamento (in forza di tale assunto, nel caso in esame, la Suprema Corte non aveva ritenuto applicabile il sequestro finalizzato alla confisca diretta nei confronti della persona giuridica fallita, ritenendo invece eseguibile il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti della persona fisica imputata).
In senso opposto si delinea un secondo orientamento, peraltro richiamato dal ricorrente, con il quale si ritiene ammissibile il provvedimento ablatorio sui beni del fallito anche a seguito di intervenuto fallimento, poiché la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, prevarrebbe su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento. E ciò si verificherebbe principalmente in ipotesi analoghe a quella in commento in ragione della finalità chiaramente sanzionatoria perseguita dalla confisca prevista in materia di reati tributari quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato (si veda Cass. Pen. Sez. III n. 15776 dell’8 gennaio 2020).
Questo secondo orientamento, ad avviso della IV sezione della Suprema Corte, deve essere condiviso in quanto trova conforto negli insegnamenti dettati proprio dalle Sezioni Unite; in particolare:
- la sentenza n. 29951 del 29 maggio del 2004, con cui la Corte di Cassazione, pronunciandosi sull’ammissibilità del sequestro preventivo finalizzato alla confisca facoltativa di beni provento di attività illecita dell’indagato e di pertinenza dell’impresa dichiarata fallita, riteneva che il sequestro fosse applicabile a condizione però che il giudicante motivasse dando conto delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela del ceto creditorio;
- la sentenza n. 45936 del 26 giugno 2019 che, riconoscendo la legittimazione del Curatore a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare anche in relazione ai beni caduti in sequestro prima della dichiarazione di fallimento, confermava implicitamente che può intervenire un provvedimento ablatorio anche a seguito della dichiarazione di fallimento.
Sulla scorta dell’orientamento impartito dalla giurisprudenza di legittimità, era accolta dunque la tesi del ricorrente, condividendo, di fatto, l’orientamento già espresso dalla Sezione III con la sentenza n. 15776 del 2020, e si annullava la sentenza impugnata rinviando per nuovo esame al Giudice competente.
Come detto, la sentenza in oggetto si pone in netto contrasto con il più recente orientamento giurisprudenziale espresso in materia (si veda, da ultima, la sentenza n. 36746 del 2020 già commentata dall’Osservatorio), collocandosi, di fatto, in un’ottica di estrema tutela delle pretese erariali.
Seppur si affermi che, in caso di intervenuta dichiarazione di fallimento, il Tribunale dovrà effettuare opportune verifiche prima di disporre la confisca dei beni affidati alla Curatela, quali la presenza di un attivo fallimentare, l’esistenza della somma oggetto della cautela reale, la possibile coesistenza di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro, si precisa in sentenza che tali verifiche, seppur apparentemente volte a non ledere i diritti dei creditori, sono dirette a consentire il soddisfacimento delle “preminenti ragioni di tutela penale”.
Dunque, resta da domandarsi come si debba comportare il Giudicante nell’ipotesi in cui il patrimonio del fallito non risulti abbastanza capiente da soddisfare integralmente le ragioni di tutela penale ed il ceto creditorio.
Il tenore letterale delle parole della Suprema Corte non sembra lasciare molti spazi di interpretazione.
È presumibile che, in simili ipotesi, l’orientamento più restrittivo della Suprema Corte sia utilizzato per privilegiare gli interessi erariali volti alla riscossione delle somme evase piuttosto che i creditori.
In buona sostanza, la pronuncia in esame sembra rappresentare un vero e proprio “passo indietro” della Suprema Corte rispetto ai precedenti e senz’altro ragionevoli approdi giurisprudenziali.
LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO NON PRECLUDE L’APPLICABILITA’ DELLA CONFISCA EX ART. 12 BIS. D.LGS. 74/2000
La Corte di Cassazione, sezione IV, con la sentenza del 13 gennaio 2022 n. 864 si pronuncia nuovamente riguardo all’incidenza della dichiarazione di fallimento sull’applicabilità della confisca obbligatoria prevista dall’art. 12bis d.lgs. n. 74 del 2000.
Nel caso specifico, all’esito del primo grado di giudizio, il Tribunale di Trapani, pur avendo applicato la sentenza ex art. 444 c.p.p. nei confronti dell’imputato del reato di dichiarazione infedele, rigettava la richiesta di confisca dei beni nella disponibilità del medesimo per un valore corrispondente al prezzo o al profitto del reato, in quanto era ormai intervenuta la dichiarazione di fallimento e la norma stessa individua quale limite all’operatività della misura ablatoria l’appartenenza del profitto o del prezzo del reato a soggetti terzi che ne sono estranei.
Il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo presentava ricorso cassazione deducendo come, nel caso di specie, il Giudice di primo grado avesse rigettato la richiesta di confisca esclusivamente in ragione dell’intervenuta dichiarazione di fallimento, omettendo di accertare altri aspetti essenziali quali: la consistenza dell’attivo fallimentare, l’eventuale preventivo soddisfacimento del credito erariale rispetto all’importo suscettibile di confisca, se ed in che termini fossero state avanzate al Curatore pretese creditorie da parte di soggetti in buona fede.
La Suprema Corte investita della questione è stata dunque chiamata a valutare se la peculiare natura dell’attivo fallimentare derivante dallo spossessamento dei beni del fallito sia o meno di ostacolo all’applicabilità del disposto di cui all’art. 12bis del d.lgs. n. 74/2000, che individua quale limite all’operatività della confisca l’appartenenza dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato ai terzi che ne sono estranei.
Sull’argomento si registrano effettivamente due orientamenti giurisprudenziali di legittimità contrastanti.
Secondo il primo orientamento giurisprudenziale recepito con la sentenza della Corte di Cassazione, Sez. III penale, n. 14766 del 26 febbraio 2020 e fatto proprio dal Giudice di prime cure, l’intervenuto fallimento determinerebbe l’inapplicabilità della misura ablatoria sui beni del fallito, in quanto, ai sensi dell’art. 42 L.F., la dichiarazione di fallimento ne comporta lo spossessamento e l’affidamento alla Curatela affinché li gestisca e ne eviti il depauperamento (in forza di tale assunto, nel caso in esame, la Suprema Corte non aveva ritenuto applicabile il sequestro finalizzato alla confisca diretta nei confronti della persona giuridica fallita, ritenendo invece eseguibile il sequestro finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti della persona fisica imputata).
In senso opposto si delinea un secondo orientamento, peraltro richiamato dal ricorrente, con il quale si ritiene ammissibile il provvedimento ablatorio sui beni del fallito anche a seguito di intervenuto fallimento, poiché la misura ablatoria reale, in virtù del suo carattere obbligatorio da riconoscere sia alla confisca diretta che a quella per equivalente, prevarrebbe su eventuali diritti di credito gravanti sul medesimo bene, a prescindere dal momento in cui intervenga la dichiarazione di fallimento. E ciò si verificherebbe principalmente in ipotesi analoghe a quella in commento in ragione della finalità chiaramente sanzionatoria perseguita dalla confisca prevista in materia di reati tributari quale strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato (si veda Cass. Pen. Sez. III n. 15776 dell’8 gennaio 2020).
Questo secondo orientamento, ad avviso della IV sezione della Suprema Corte, deve essere condiviso in quanto trova conforto negli insegnamenti dettati proprio dalle Sezioni Unite; in particolare:
Sulla scorta dell’orientamento impartito dalla giurisprudenza di legittimità, era accolta dunque la tesi del ricorrente, condividendo, di fatto, l’orientamento già espresso dalla Sezione III con la sentenza n. 15776 del 2020, e si annullava la sentenza impugnata rinviando per nuovo esame al Giudice competente.
Come detto, la sentenza in oggetto si pone in netto contrasto con il più recente orientamento giurisprudenziale espresso in materia (si veda, da ultima, la sentenza n. 36746 del 2020 già commentata dall’Osservatorio), collocandosi, di fatto, in un’ottica di estrema tutela delle pretese erariali.
Seppur si affermi che, in caso di intervenuta dichiarazione di fallimento, il Tribunale dovrà effettuare opportune verifiche prima di disporre la confisca dei beni affidati alla Curatela, quali la presenza di un attivo fallimentare, l’esistenza della somma oggetto della cautela reale, la possibile coesistenza di diritti di proprietà concernenti gli stessi beni sottoposti a sequestro, si precisa in sentenza che tali verifiche, seppur apparentemente volte a non ledere i diritti dei creditori, sono dirette a consentire il soddisfacimento delle “preminenti ragioni di tutela penale”.
Dunque, resta da domandarsi come si debba comportare il Giudicante nell’ipotesi in cui il patrimonio del fallito non risulti abbastanza capiente da soddisfare integralmente le ragioni di tutela penale ed il ceto creditorio.
Il tenore letterale delle parole della Suprema Corte non sembra lasciare molti spazi di interpretazione.
È presumibile che, in simili ipotesi, l’orientamento più restrittivo della Suprema Corte sia utilizzato per privilegiare gli interessi erariali volti alla riscossione delle somme evase piuttosto che i creditori.
In buona sostanza, la pronuncia in esame sembra rappresentare un vero e proprio “passo indietro” della Suprema Corte rispetto ai precedenti e senz’altro ragionevoli approdi giurisprudenziali.