Con la sentenza del 28 marzo 2022 n. 11087 la Suprema Corte di Cassazione ha analizzato i diversi profili di responsabilità degli amministratori privi di deleghe, ed ha, inoltre, affrontato il tema dell’applicabilità dei limiti previsti dall’art. 52 d.l. 69/2013 al sequestro della cd. “prima casa”, anche al sequestro/confisca del profitto derivante dalla commissione di reati tributari adottato in sede penale.
Più in particolare, la vicenda sottoposta all’esame degli Ermellini è nata dal ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Firenze che aveva confermato il decreto di sequestro preventivo nei confronti di Tizio indagato per il reato di cui agli artt. 110 c.p., 2 D.Lgs. n. 74 del 2000.
In sintesi la difesa del ricorrente censurava la predetta ordinanza per i due seguenti motivi di gravame:
- l’insussistenza del fumus del reato contestato, per la mancata indicazione degli indizi circa la conoscenza o conoscibilità da parte del ricorrente del disegno criminoso ipotizzato, dovendosi ritenere insufficiente il richiamo offerto dai giudici del riesame alla sola condizione soggettiva della carica di consigliere di amministrazione assunta dal ricorrente. In particolare quest’ultimo assumeva che dopo la riforma dell’art. 2392, cod. civ. sarebbe stato eliminato in capo ai semplici componenti del C.d.A. l’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione, proprio al fine di evitare che in capo agli amministratori non operativi si potessero addebitare rilievi sulla base di quella che altro non sarebbe che una forma di responsabilità oggettiva;
- l’illegittimità del provvedimento per violazione del divieto di sequestro della prima casa di abitazione in applicazione della ratio di cui all’art. 52, d.l. n. 69 del 2013.
La Corte ha rigettato il ricorso.
Ebbene, nell’analizzare il primo motivo di ricorso la Suprema Corte muove proprio da quanto dispone l’art. 2392 cod. civ. in tema di responsabilità degli amministratori verso la Società, osservando che questi ultimi sono solidalmente responsabili verso la persona giuridica da loro amministrata dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge o dallo statuto, a meno che non si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o attribuite in concreto ad uno o più di essi; principio ribadito specificamente per il consiglio di amministrazione dall’art. 2381, secondo comma, cod. civ. Pertanto, nel caso di assenza di deleghe ad uno dei componenti del consiglio di amministrazione (come nella vicenda in esame) ad avviso della Cassazione deve ritenersi gravante su tutti i consiglieri una posizione di garanzia in forza della quale rispondono solidalmente degli atti illeciti deliberati o posti in essere dal consiglio, e dunque anche dei reati tributari eventualmente commessi, fatto salvo il meccanismo di esonero previsto dall’art. 2392 co. 3 cod. civ..
In altri termini, in assenza di deleghe in materia di adempimenti tributari, non si porrebbe un problema di conoscibilità della condotta illecita, in quanto insita nella carica rivestita.
Solo qualora specifiche materie siano state attribuite ad uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri ad esse delegati, salva in tal caso la responsabilità solidale dei consiglieri non operativi, ovverosia esenti da delega, in conseguenza non già della posizione di garanzia sancita dall’art. 2392, primo comma, cod. civ., bensì per effetto della violazione del dovere di informazione. In presenza di segnali di allarme, anche dopo la riforma legislativa attuata con il d.lgs.6/2003 continua infatti a gravare sui singoli amministratori l’onere di attivarsi per assumere informazioni ulteriori rispetto a quelle ricevute in ordine all’andamento della gestione sociale ed alle operazioni più significative poste in essere dagli amministratori con deleghe operative e di fare quanto nelle loro possibilità per impedire il compimento dell’atto pregiudizievole o eliderne le conseguenze dannose.
Pertanto, da un lato spetta ai consiglieri delegati dare adeguata informazione degli atti compiuti e dall’altro, ai sensi dell’art 2381 ultimo comma, spetta ai consiglieri non delegati il potere /dovere di richiedere in sede consiliare ai delegati tutte le informazioni necessarie per una comprensione migliore dell’operazione. Si tratta in sintesi del c.d. “dovere di agire informato” degli amministratori. Del resto, rileva la Corte, il secondo comma dell’art.2392 cod. civ. va letto congiuntamente all’art. 40 secondo comma del c.p., ai sensi del quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. Dunque, qualora un consigliere senza deleghe ometta di attivarsi per impedire l’atto illecito di cui è venuto a conoscenza, ne risponderà in sede penale nel medesimo modo del consigliere delegato che lo ha commesso.
Infine, con riferimento al secondo motivo di censura, gli Ermellini richiamano il principio per il quale in tema di reati tributari, il limite alla espropriazione immobiliare previsto dall’art. 76, comma 1, lett. a), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 nel testo introdotto dall’art. 52, comma 1, lett. g), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98), opera solo nei confronti dell’Erario per debiti tributari e riguarda l’unico immobile di proprietà, e non la “prima casa” del debitore. Pertanto, secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, la disposizione non costituisce un limite all’adozione né della confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né del sequestro preventivo ad essa finalizzato, in quanto l’oggetto del sequestro è costituito dal profitto del reato e non dal debito tributario.
In conclusione, afferma la Corte, la citata disposizione riguarda “il solo agente della riscossione ed è limitata a specifiche ipotesi e condizioni che non svolgono alcun effetto sulla misura cautelare reale imposta nel processo penale, avente, evidentemente, finalità del tutto diverse“.
REATI TRIBUTARI: IN ASSENZA DI DELEGHE LA RESPONSABILITA’ PENALE SI ESTENDE A TUTTI I COMPONENTI DEL CDA
Con la sentenza del 28 marzo 2022 n. 11087 la Suprema Corte di Cassazione ha analizzato i diversi profili di responsabilità degli amministratori privi di deleghe, ed ha, inoltre, affrontato il tema dell’applicabilità dei limiti previsti dall’art. 52 d.l. 69/2013 al sequestro della cd. “prima casa”, anche al sequestro/confisca del profitto derivante dalla commissione di reati tributari adottato in sede penale.
Più in particolare, la vicenda sottoposta all’esame degli Ermellini è nata dal ricorso proposto avverso l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Firenze che aveva confermato il decreto di sequestro preventivo nei confronti di Tizio indagato per il reato di cui agli artt. 110 c.p., 2 D.Lgs. n. 74 del 2000.
In sintesi la difesa del ricorrente censurava la predetta ordinanza per i due seguenti motivi di gravame:
La Corte ha rigettato il ricorso.
Ebbene, nell’analizzare il primo motivo di ricorso la Suprema Corte muove proprio da quanto dispone l’art. 2392 cod. civ. in tema di responsabilità degli amministratori verso la Società, osservando che questi ultimi sono solidalmente responsabili verso la persona giuridica da loro amministrata dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge o dallo statuto, a meno che non si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o attribuite in concreto ad uno o più di essi; principio ribadito specificamente per il consiglio di amministrazione dall’art. 2381, secondo comma, cod. civ. Pertanto, nel caso di assenza di deleghe ad uno dei componenti del consiglio di amministrazione (come nella vicenda in esame) ad avviso della Cassazione deve ritenersi gravante su tutti i consiglieri una posizione di garanzia in forza della quale rispondono solidalmente degli atti illeciti deliberati o posti in essere dal consiglio, e dunque anche dei reati tributari eventualmente commessi, fatto salvo il meccanismo di esonero previsto dall’art. 2392 co. 3 cod. civ..
In altri termini, in assenza di deleghe in materia di adempimenti tributari, non si porrebbe un problema di conoscibilità della condotta illecita, in quanto insita nella carica rivestita.
Solo qualora specifiche materie siano state attribuite ad uno o più amministratori, gli illeciti compiuti investono esclusivamente la responsabilità dei consiglieri ad esse delegati, salva in tal caso la responsabilità solidale dei consiglieri non operativi, ovverosia esenti da delega, in conseguenza non già della posizione di garanzia sancita dall’art. 2392, primo comma, cod. civ., bensì per effetto della violazione del dovere di informazione. In presenza di segnali di allarme, anche dopo la riforma legislativa attuata con il d.lgs.6/2003 continua infatti a gravare sui singoli amministratori l’onere di attivarsi per assumere informazioni ulteriori rispetto a quelle ricevute in ordine all’andamento della gestione sociale ed alle operazioni più significative poste in essere dagli amministratori con deleghe operative e di fare quanto nelle loro possibilità per impedire il compimento dell’atto pregiudizievole o eliderne le conseguenze dannose.
Pertanto, da un lato spetta ai consiglieri delegati dare adeguata informazione degli atti compiuti e dall’altro, ai sensi dell’art 2381 ultimo comma, spetta ai consiglieri non delegati il potere /dovere di richiedere in sede consiliare ai delegati tutte le informazioni necessarie per una comprensione migliore dell’operazione. Si tratta in sintesi del c.d. “dovere di agire informato” degli amministratori. Del resto, rileva la Corte, il secondo comma dell’art.2392 cod. civ. va letto congiuntamente all’art. 40 secondo comma del c.p., ai sensi del quale “non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”. Dunque, qualora un consigliere senza deleghe ometta di attivarsi per impedire l’atto illecito di cui è venuto a conoscenza, ne risponderà in sede penale nel medesimo modo del consigliere delegato che lo ha commesso.
Infine, con riferimento al secondo motivo di censura, gli Ermellini richiamano il principio per il quale in tema di reati tributari, il limite alla espropriazione immobiliare previsto dall’art. 76, comma 1, lett. a), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 nel testo introdotto dall’art. 52, comma 1, lett. g), del d.l. 21 giugno 2013, n. 69 (convertito, con modificazioni, in legge 9 agosto 2013, n. 98), opera solo nei confronti dell’Erario per debiti tributari e riguarda l’unico immobile di proprietà, e non la “prima casa” del debitore. Pertanto, secondo la costante giurisprudenza della Cassazione, la disposizione non costituisce un limite all’adozione né della confisca penale, sia essa diretta o per equivalente, né del sequestro preventivo ad essa finalizzato, in quanto l’oggetto del sequestro è costituito dal profitto del reato e non dal debito tributario.
In conclusione, afferma la Corte, la citata disposizione riguarda “il solo agente della riscossione ed è limitata a specifiche ipotesi e condizioni che non svolgono alcun effetto sulla misura cautelare reale imposta nel processo penale, avente, evidentemente, finalità del tutto diverse“.