Con la sentenza del 16 marzo 2022 n. 20050 la terza sezione della Suprema Corte affronta, tra gli altri, il tema della prevalenza dell’effettività dell’esercizio dell’attività di impresa, e della conseguente irrilevanza del dato formale dell’avvenuta cancellazione dal registro delle imprese dell’ente medesimo.
Nella vicenda al vaglio della Corte, gli imputati erano stati condannati dalla Corte d’Appello di Milano in relazione ai reati previsti e puniti dagli artt. 2 e 5 d.lgs. 74/2000.
La corte di merito aveva confermato l’esistenza di un sistema ideato da uno degli imputati che, avvalendosi anche di suoi collaboratori, aveva creato e gestito delle società “cartiere” che emettevano fatture per operazioni inesistenti al fine di consentire l’abbattimento dell’imposizione fiscale ai propri clienti, omettevano dichiarazioni fiscali, anche occultando le scritture contabili.
Avverso la decisione della Corte d’Appello i quattro imputati proponevano ricorso per cassazione.
In particolare uno degli imputati deduceva l’ erronea applicazione della legge penale con riferimento alla natura dei reati tributari contestati, quali fattispecie concorrenti con conseguente violazione della disciplina del reato continuato e della prescrizione. Gli artt. 2 e 5 d.lgs. 74/2000 sarebbero, secondo il ricorrente, fattispecie a più norme integrative e di conseguenza per la loro configurabilità è sufficiente la commissione anche solo di una delle condotte contestate. Pertanto, in caso di omissione di una o entrambe le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, il reato di cui all’art. 5 d.lgs. 74/2000 (e analogo discorso vale per l’art. 2) sarà sempre unico, risultando identico il bene giuridico leso, con conseguente inapplicabilità del regime della continuazione cd interna.
Diversamente altro imputato lamentava la violazione dell’art. 5 d.lgs. 74/2000 e dell’art. 521 c.p.p., nonché il vizio di omessa motivazione sul punto. Quanto alla violazione della norma sostanziale, osservava che la società da egli amministrata era stata cancellata dal registro delle imprese e successivamente era stato depositato il bilancio di liquidazione, pertanto nell’annualità in contestazione (successiva di 3 anni rispetto alla cancellazione) non esisteva alcun obbligo dichiarativo.
La Corte ha dichiarato inammissibili tutti i ricorsi.
Con riferimento alla contestata alternatività delle condotte previste dagli artt. da 2 a 5 del d.lgs. 74/2000, la Corte precisa che gli artt. 2 e 5 d.lgs. 74/2000 puniscono rispettivamente la indicazione “in una delle dichiarazioni” e l’omessa presentazione di “una delle dichiarazioni” relative all’IVA o alle imposte sui redditi. La diversità dell’oggetto e dell’imposta che l’agente evade rendono le condotte ontologicamente diverse tra loro, e anche se è vero, ritiene la Corte, che il d.lgs. 74/2000 codifica condotte potenzialmente idonee a ledere l’unico bene giuridico che viene individuato nel dovere di ciascuno a concorrere alle spese pubbliche, questo non equivale a escludere la diversità materiale delle condotte quando sono volte a evadere imposte diverse mediante dichiarazioni diverse. Sicché è corretta la decisione della corte d’Appello di applicare la continuazione interna ai reati omissivi relativi al medesimo anno di imposta.
La Corte respinge anche la tesi difensiva secondo la quale la cancellazione dal registro delle imprese della società e la presentazione del bilancio di liquidazione facciano venire meno gli obblighi dichiarativi in capo all’ente, poiché tale impostazione finirebbe per legittimare la prosecuzione dell’attività “in nero” con la conseguente sottrazione di ricavi ed elementi attivi all’imposizione diretta o sul valore aggiunto.
Ciò che rileva ai fini della fattispecie incriminatrice è l’effettività dell’esercizio della attività d’impresa che genera reddito imponibile, e la mancata iscrizione nel registro delle imprese può consentire di evincere la finalità elusiva. Pertanto, afferma il Collegio ancorando le proprie statuizioni alla giurisprudenza delle sezioni civili (sez. 1 n. 4455/2001; sez. 6-1 n. 10139/2018; sez. 6-1 n.16107/2014), la fattispecie penale deve essere interpretata secondo un criterio di effettività; tale principio consente di stabilire che, così come la qualità di imprenditore commerciale è indissolubilmente legata al concreto esercizio dell’attività di impresa, anche la dismissione di tale qualità è correlata al mancato compimento nel periodo di riferimento di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle che normalmente vengono poste in essere durante l’esercizio dell’attività di impresa. Peraltro, il relativo apprezzamento del giudice, se sorretto da sufficiente e congruo apparato motivazionale, si sottrae al sindacato di legittimità.
di Marco Napolitano
OMESSA DICHIARAZIONE: LA CANCELLAZIONE DAL REGISTRO DELLE IMPRESE NON FA VENIR MENO L’OBBLIGO DICHIARATIVO SE LA SOCIETA’ HA CONTINUATO AD OPERARE
Con la sentenza del 16 marzo 2022 n. 20050 la terza sezione della Suprema Corte affronta, tra gli altri, il tema della prevalenza dell’effettività dell’esercizio dell’attività di impresa, e della conseguente irrilevanza del dato formale dell’avvenuta cancellazione dal registro delle imprese dell’ente medesimo.
Nella vicenda al vaglio della Corte, gli imputati erano stati condannati dalla Corte d’Appello di Milano in relazione ai reati previsti e puniti dagli artt. 2 e 5 d.lgs. 74/2000.
La corte di merito aveva confermato l’esistenza di un sistema ideato da uno degli imputati che, avvalendosi anche di suoi collaboratori, aveva creato e gestito delle società “cartiere” che emettevano fatture per operazioni inesistenti al fine di consentire l’abbattimento dell’imposizione fiscale ai propri clienti, omettevano dichiarazioni fiscali, anche occultando le scritture contabili.
Avverso la decisione della Corte d’Appello i quattro imputati proponevano ricorso per cassazione.
In particolare uno degli imputati deduceva l’ erronea applicazione della legge penale con riferimento alla natura dei reati tributari contestati, quali fattispecie concorrenti con conseguente violazione della disciplina del reato continuato e della prescrizione. Gli artt. 2 e 5 d.lgs. 74/2000 sarebbero, secondo il ricorrente, fattispecie a più norme integrative e di conseguenza per la loro configurabilità è sufficiente la commissione anche solo di una delle condotte contestate. Pertanto, in caso di omissione di una o entrambe le dichiarazioni ai fini delle imposte dirette e dell’IVA, il reato di cui all’art. 5 d.lgs. 74/2000 (e analogo discorso vale per l’art. 2) sarà sempre unico, risultando identico il bene giuridico leso, con conseguente inapplicabilità del regime della continuazione cd interna.
Diversamente altro imputato lamentava la violazione dell’art. 5 d.lgs. 74/2000 e dell’art. 521 c.p.p., nonché il vizio di omessa motivazione sul punto. Quanto alla violazione della norma sostanziale, osservava che la società da egli amministrata era stata cancellata dal registro delle imprese e successivamente era stato depositato il bilancio di liquidazione, pertanto nell’annualità in contestazione (successiva di 3 anni rispetto alla cancellazione) non esisteva alcun obbligo dichiarativo.
La Corte ha dichiarato inammissibili tutti i ricorsi.
Con riferimento alla contestata alternatività delle condotte previste dagli artt. da 2 a 5 del d.lgs. 74/2000, la Corte precisa che gli artt. 2 e 5 d.lgs. 74/2000 puniscono rispettivamente la indicazione “in una delle dichiarazioni” e l’omessa presentazione di “una delle dichiarazioni” relative all’IVA o alle imposte sui redditi. La diversità dell’oggetto e dell’imposta che l’agente evade rendono le condotte ontologicamente diverse tra loro, e anche se è vero, ritiene la Corte, che il d.lgs. 74/2000 codifica condotte potenzialmente idonee a ledere l’unico bene giuridico che viene individuato nel dovere di ciascuno a concorrere alle spese pubbliche, questo non equivale a escludere la diversità materiale delle condotte quando sono volte a evadere imposte diverse mediante dichiarazioni diverse. Sicché è corretta la decisione della corte d’Appello di applicare la continuazione interna ai reati omissivi relativi al medesimo anno di imposta.
La Corte respinge anche la tesi difensiva secondo la quale la cancellazione dal registro delle imprese della società e la presentazione del bilancio di liquidazione facciano venire meno gli obblighi dichiarativi in capo all’ente, poiché tale impostazione finirebbe per legittimare la prosecuzione dell’attività “in nero” con la conseguente sottrazione di ricavi ed elementi attivi all’imposizione diretta o sul valore aggiunto.
Ciò che rileva ai fini della fattispecie incriminatrice è l’effettività dell’esercizio della attività d’impresa che genera reddito imponibile, e la mancata iscrizione nel registro delle imprese può consentire di evincere la finalità elusiva. Pertanto, afferma il Collegio ancorando le proprie statuizioni alla giurisprudenza delle sezioni civili (sez. 1 n. 4455/2001; sez. 6-1 n. 10139/2018; sez. 6-1 n.16107/2014), la fattispecie penale deve essere interpretata secondo un criterio di effettività; tale principio consente di stabilire che, così come la qualità di imprenditore commerciale è indissolubilmente legata al concreto esercizio dell’attività di impresa, anche la dismissione di tale qualità è correlata al mancato compimento nel periodo di riferimento di operazioni intrinsecamente corrispondenti a quelle che normalmente vengono poste in essere durante l’esercizio dell’attività di impresa. Peraltro, il relativo apprezzamento del giudice, se sorretto da sufficiente e congruo apparato motivazionale, si sottrae al sindacato di legittimità.
di Marco Napolitano